di Laura Pasotti, redattrice di Sogni&Bisogni
Nel volontariato, storicamente, ci sono diversi livelli di coinvolgimento da parte dei familiari. C'è un livello associativo, con funzione di rappresentanza, sostegno e promozione dei diritti delle persone e di familiari che hanno congiunti malati.
“Questo livello – racconta Angelo Fioritti, presidente del Collegio nazionale dei Dipartimenti di Salute Mentale ed ex direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell'Ausl di Bologna – è molto diffuso nella pediatria, in oncologia pediatrica e nella neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza. In questi ambiti ci sono associazioni molto attive per la tutela, la rappresentanza, il sostegno e la pressione verso le istituzioni per garantire cure adeguate”.
Il passo successivo è l'impegno diretto in attività di tipo sussidiario che non riguardano le cure ma la qualità dell'accoglienza, dell'assistenza e della vita delle persone, “e dei loro familiari che rischiano, nella complessità del sistema socio-sanitario, di smarrirsi, prendere vicoli ciechi e sentirsi impotenti di fronte a ciò che succede”, aggiunge Fioritti.
Le esperienze di familiari che decidono di dedicare una parte del loro tempo a pazienti o alle loro famiglie sono numerose, ci sono esempi in ambito neurologico, oncologico, pediatrico, dove ci sono familiari che costruiscono una rete di relazioni sociali, di connessioni, di opportunità pratiche. “In alcuni casi, quelle relazioni diventano la rete sociale più importante per le famiglie – dice Fioritti – perché tra gli effetti collaterali di alcune patologie c'è quello di ridurre la vita sociale e la rete amicale”.
Ma c'è anche un terzo livello ed è quello dell'utente o familiare esperto. Come funziona? Ci sono associazioni che, nel tempo, diventano fornitrici di servizi assistenziali e clinici. È il caso, ad esempio, di Anffas e Aias che, da associazioni di genitori, sono diventate anche erogatrici di servizi, in convenzione con l'Ausl. E poi ci sono gli esperti nel supporto tra pari.
“Questo tipo di aiuto è nato a Trento con gli Ufe, gli Utenti familiari esperti, in ambito psichiatrico – chiarisce Fioritti – In questo caso, non c'è un'associazione che gestisce un servizio, ma ci sono persone che vengono integrate nei servizi di salute mentale in qualità di esperti nel supporto tra pari”. Un'attività che non è sussidiaria (come nel secondo livello di aiuto) ma volta a migliorare la qualità della vita e dell'assistenza, “dunque un valore aggiunto nella qualità dei servizi clinici”.
Gli utenti e familiari esperti nel supporto tra pari possono affiancare medici e psicologi per fornire informazioni, supporto emotivo, confronto di opinioni, tutoraggio. “È una forma di garanzia per l'utente del rispetto del patto di cura”.
All'estero, in particolare negli Stati Uniti, in Canada, Australia, Nuova Zelanda e, per quanto riguarda l'Europa in Inghilterra, Scozia, Francia e Irlanda, è riconosciuta la qualifica dei Peer support workers, lavoratori nel supporto tra pari, persone che hanno un'esperienza vissuta di problemi di salute mentale, con una qualifica riconosciuta dalle istituzioni sanitarie nazionali in seguito a un percorso formativo e con un lavoro nelle equipe multiprofessionali dei servizi socio-sanitari.
E in Italia? Questa forma di intervento dei familiari e degli utenti è recente e si sta consolidando in alcuni servizi di salute mentale, come Trento appunto. Da lì ha preso vita la Conferenza nazionale degli utenti e familiari esperti in supporto tra pari che ha prodotto la Carta nazionale degli Esp.
Ma per integrare queste figure nei servizi socio-sanitari, come accade all'estero, ci sono alcuni ostacoli. “Nel mondo delle associazioni e dei servizi di salute mentale ci sono interesse e buona volontà, ma potrebbero esserci ostacoli nelle istituzioni, nella formazione e nel mercato del lavoro perché il pubblico può assumere solo persone con titoli precisi, quindi ci vuole il ricooscimento formale curricolare e l'istituzione di una nuova professione. Sono dinamiche complesse che richiedono tempo”, spiega Fioritti. Tanto è vero che, oggi, in Italia, chi si è formato nei corsi per esperti nel supporto tra pari sono, spesso, impiegati nel privato sociale.
Avere un confronto con chi ha già affrontato una situazione simile però può essere importante perché chi ci è già passato può spiegare ad altri che si trovano nella stessa situazione come muoversi, può fornire informazioni e “dare una prova certa che si può sopravvivere e affrontare quella situazione con successo”, conclude Fioritti.
E questo vale anche per la neuropsichiatria infantile. “Non escludo che un tipo di intervento come quello degli Esp potrebbe portare un valore aggiunto anche nella neuropsichiatria infantile – dice Fioritti – Non c'è dubbio che i genitori che pochi giorni dopo la nascita apprendono che il figlio ha una malattia genetica, una patologia o una disabilità devono affrontare notevoli sfide, maturare fiducia verso i servizi, ristrutturare le proprie aspettative. E ci sono passaggi in cui l'interlocuzione tecnica in ambito medico non è sempre risolutiva”.
“Un genitore esperto può dare uno sguardo su quello che sarà il percorso da fare. Uno sguardo sul futuro che, quando ti trovi ad affrontare una diagnosi di disabilità o di una patologia, nessuno ti dà. Un genitore esperto non ti dirà come andrà quel percorso, ma ti può consigliare come condurlo”, dice una mamma dell'associazione GRD Bologna. Quando il figlio aveva tre anni, lei e il marito hanno scoperto che aveva una patologia neurologica. E si sono ritrovati da soli a dover affrontare il percorso di accertamenti, valutazioni, diagnosi. “Lo abbiamo affrontato da autodidatti, andando a tentoni – racconta – Ci siamo trovati in mezzo a voci diverse, la logopedista diceva una cosa, il neuropsichiatra un'altra, e noi non sapevamo cosa fare. Così ci siamo fatti coraggio e abbiamo portato nostro figlio a fare una valutazione in un'altra regione. Poi con i referti siamo tornati dal neuropsichiatra della nostra città e abbiamo scoperto che quelle valutazioni erano in linea con il suo parere. È stata la cosa più difficile che abbiamo fatto”.
Ad aiutarli in questo difficile percorso non sono state tanto le sedute di parent training, “in cui ci facevano un sacco di domande e ci parlavano di accettazione della situazione”, ma le chiacchierate con gli altri genitori incontrati in ospedale, con le altre madri ricoverate insieme ai figli per gli accertamenti diagnostici. “Sono state loro a farmi capire che ci sono tante cose che si possono fare, che ci sono alternative, terapie diverse. Sono quelle le cose che i genitori vogliono sentirsi dire, non parlare di accettazione”.
Oltre alla rete familiare, “mia madre ci ha aiutati moltissimo e nei momenti di scoramento ci diceva che non dovevamo perdere la fiducia”, e alle associazioni, “a Bologna abbiamo conosciuto GRD e, oggi che mia madre non c'è più, è Antonella Misuraca, la presidente, a dirmi quelle cose”, potrebbe quindi profilarsi la figura di genitori esperti anche in neuropsichiatria infantile.
“Credo sia importante incontrare qualcuno che ti aiuta nei momenti duri, che ti dice che domani potrebbe aprirsi uno spiraglio nel buio che vedi oggi. E quel qualcuno può essere solo un genitore che ci è già passato”.
L'incontro con l'associazione GRD ha aperto a questi due genitori e al figlio, che oggi ha 11 anni, un mondo di possibilità. “Oggi nostro figlio segue i corsi di autonomia e preautonomia, gioca a calcio e fa arrampicata. Fa le cose che fanno anche altri bambini della sua età e gli piace molto”.
Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi
...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...
Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo Pini, di Milano.
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