Dal diario di bordo del corso pilota per orientatori a cura di Simona Gotti
Treno regionale veloce 2276 delle ore 7.50 in partenza dal binario 1.
Siamo in arrivo alla stazione di Reggio Emilia. Così iniziano molte mattine, una due volte la settimana, da ottobre del 2018 per noi due, Simona e Giovanni, ESP di Bologna che partecipiamo a un corso.
Le prime lezioni sono state difficili: la curva di attenzione non reggeva quasi nemmeno i quarantacinque minuti. Ma col tempo qualcosa si è modificato o riattivato o ricollegato. Perché ogni corso è un percorso, se ti metti in gioco.
Alla stazione a volte incontriamo Maria di Piacenza e Bru di Carpi. Dieci minuti a piedi e siamo in “Polveriera”, dove si svolgono la maggior parte delle lezioni (tranne quando dobbiamo andare in aula informatica in Irecoop, allora la sveglia è un’ora prima). La “Polveriera” è un luogo di comunità e di territorio restituiti alla città, dove convivono naturalmente esperienze diverse: a pranzo a volte vedi dirigenti d’azienda che pasteggiano tutti agghindati, e i ragazzi con disabilità che lavorano al design market e fanno prodotti d’arte splendidi. Là incontriamo gli altri: quelli di Reggio che sono la maggior parte, insieme ai Ferraresi e Modenesi e Parmensi (o Parmigiani non so). Le differenze, l’eterogeneità del gruppo, anche se, all’inizio, ha fatto uscire a volte “fumo dalle orecchie”, con il tempo, e forse per la formazione in sé, si sono stemperate. Abbiamo imparato ad ascoltare, a conoscerci, a trovare un linguaggio comune. Oppure pochi, ma semplici, minimi comuni denominatori tra le specifiche diversità. Il corso è per “orientatori”, figura che nel sistema regionale delle qualifiche definisce colui che “è in grado di progettare e sostenere percorso professionali individualizzati per persone che ne facciano richiesta o n mostrino necessità, attivando l’opportuna rete di relazioni con il sistema di formazione/lavoro di riferimento”. Continuo a pensare che rispetto alla figura di ESP o UFE o di facilitatore sia un vestito allo stesso tempo troppo grande o troppo piccolo, insomma “non su misura”, ma questo ad ora è quello che passa il convento.
Strano a dirsi, sono state davvero importanti, al di là del colloquio motivazionale trattato da uno psichiatra, che è ovviamente il più vicino ai temi della salute mentale, le lezioni sulla sicurezza e sulla nuova legge sulla privacy.
Dopo un anno e passa di corso, nel Dicembre 2019 alle soglie dell’esame di commissione, le parole: ascolto attivo-riflessivo, domande aperte, fasi di accoglienza, raccolta dati, fase esplicativa, il territorio e il mercato del lavoro, l’orientamento di gruppo e il progetto individuale, eccetera, rimbalzavano nella testa come delle palline da pingpong.
Nonostante la fatica e i costi sostenuti, ce l’abbiamo fatta; abbiamo portato a casa la qualifica.
Da questa esperienza quello che porto con me, insieme alle relazioni con le persone e ai contenuti formativi, e una consapevolezza delle mie personali risorse.
E ho capito anche che sono ancora in grado di acquisirne di nuove.
Buon life long learning a tutti (=cambiamento e formazione lungo tutto l’arco della vita)
(questo articolo è stato in origine pubblicato sul Faro di Dicembre 2019, La Scuola a pag 38)
a cura di Giovanni Romagnani
Intanto.
I.r.e.c.o.o.p
Introdurre recovery e costruire opportunità orizzonti percorsi.
Come sostiene sempre la mia collega Simona diventare orientatore è un percorso esistenziale ed esperienziale.
Ai corsisti è richiesto di viaggiare nei loro sogni, a noi docenti di attraversare i loro bisogni.
Per arrivare ad Itaca.
La voglia di viaggiare dovete metterla voi, la barca la fornisce l'Irecoop, i punti cardinali il corso.
Orientare significa fare emergere il silenzio e la pazienza.
Avere Cura.
Attendere che i desideri si formino ed emergano.
Osservare la rotta, non indicarla.
Servono maestri.
E linguaggi comuni.
Da cui intendersi e partire.
Prima conoscere, poi trasformare.
Prima vedere, poi lasciarsi guardare.
La Recovery deve essere brillante, Star.
Una caccia al tesoro dove il premio è la qualifica.
Siamo come orientatori.
Non ci interessano le maschere.
Vogliamo immergerci nel brillare dei tuoi occhi.
Insieme.
Delle volte saremo clown con una lacrima, felici di capire che sintomi ha l'empatia, co-producendo tragitti insieme.
JOE
Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi
...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...
Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo Pini, di Milano.
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