di Laura Pasotti, redattrice di Sogni&Bisogni
Coraggioso. Lo psichiatra Benedetto Saraceno ha scelto questo aggettivo per descrivere Franco Basaglia in risposta alla domanda di una liceale, che il 20 marzo ha assistito, insieme ai compagni e agli studenti di altre tre scuole di Bologna, alla lectio magistralis sull'attualità del pensiero di Basaglia, uno degli eventi organizzato dall'Istituzione Minguzzi per il centenario della nascita dello psichiatra ricordato per aver chiuso i manicomi. “Coraggioso, perché si è opposto all'establishment culturale, alla retorica, ai luoghi comuni culturali e politici. Perché ha saputo dire di no”.
Da un giovane assistente universitario a Padova, Franco Basaglia si forma a una scuola di psichiatria un po' controrrente, attenta alla soggettività e preoccupata di non oggettivare il malato. “Basaglia si pone il problema del rispetto dell'altro, della ricostruzione della soggettività, del riconoscere che chiunque, anche la persona ammalata, con una disabilità grave, una patologia psichiatrica o un basso quoziente intellettivo, è sempre, fino all'ultimo respiro, un soggetto che produce senso, per quanto non immediatamente comprensibile. E in quanto produttore di senso, è detentore di diritti”, racconta Saraceno, che ha lavorato con Basaglia e oggi è garante dell'archivio che porta il suo nome.
Quest'idea, che Saraceno giudica “estremamente interessante”, sarà quella che porterà all'espulsione di Basaglia dall'università, che gli impedirà di diventare professore associato e che lo porterà a dirigere il manicomio di Gorizia. “Un brutto manicomio di una piccola città del Nord Est al confine con l'allora Jugoslavia. Una sorta di premio di punizione”, dice lo psichiatra che dal 1990 al 2010 è stato direttore del Dipartimento di salute mentale dell'Organizzazione mondiale della sanità a Ginevra e oggi è professore di Salute globale all'Università di Lisbona.
A Gorizia avviene “qualcosa di sconvolgente”, dice Saraceno. Appena mette piede nel manicomio, a Basaglia viene presentato il libro delle contenzioni (la pratica di legare i pazienti psichiatrici al letto, purtroppo utilizzata ancora oggi) che, in qualità di direttore, deve firmare. E Basaglia dice: “E mi no firmo” (io non firmo). Una risposta che è anche la prima picconata contro l'istituzione del manicomio. “Con quella frase, Basaglia afferma, da funzionario pubblico, di non voler essere complice della stessa istituzione di cui è direttore – continua lo psichiatra – La contraddizione tra il senso dello Stato e la radicalità della posizione di Basaglia è una lezione importante”.
A Gorizia Basaglia scopre che il manicomio è un luogo di deprivazione e di immiserimento fisico e umano e che la psichiatria non si occupa della mente dei pazienti ma dei loro corpi, avvilendoli. “A Gorizia Basaglia vede pazienti in pigiama, che si trascinano senza fare nulla, legati al letto, umiliati”. Inizia da lì, insieme a un gruppo di giovani psichiatri che Saraceno definisce “un intrepido equipaggio di marinai matti e coraggiosi”, la decostruzione dell'ospedale psichiatrico. E inizia con le assemblee di reparto, un momento di rispetto e di confronto in cui persone che per anni sono state silenziate, parlano e si ritrovano comunità.
“In quelle assemblee si parla di cose banali, di cosa fare la domenica, di andare in gita, di vita quotidiana – spiega Saraceno – Basaglia vuole rendere il manicomio meno miserabile e meno violento. Poi capirà che non basta perché anche se lo si pulisce, se non si lega, alle persone mancheranno sempre i valori portanti della vita: lo scambio sociale, l'affettività, la gioia”.
Basaglia capisce che non ci si può accontentare, che il manicomio va abolito. “Mi disse che al posto dell'ospedale psichiatrico avremmo dovuto mettere il sale, perché così lì non sarebbe cresciuto più nulla”, ricorda.
Ma quindi Basaglia chiude i manicomi e poi? Cosa succede? Dove finiscono le persone? In strada, tornano in famiglia? Dove vanno? “Inizia a costruirsi, tra mille incertezze, l'ipotesi del territorio – dice Saraceno – La deistituzionalizzazione è più complessa della chiusura di un ospedale, è la visione di una società, di una civitas, di una cittadinanza che non è la comunità buona che accetta i diversi ed è piena di diversi ma è proprio una società diversa, con uno sguardo diverso verso l'altro, dove l'altro è il migrante, il povero, il giovane deviante, chi dà fastidio a un ordine costituito che non vuole essere disturbato nelle sue certezze morali, etiche, economiche di privilegi, di differenze, di inequità”.
Ma per farlo bisogna lavorare alla ricostruzione della soggettività di queste persone, di questi cittadini. Ed è quello che Basaglia fa, prima a Gorizia e poi a Colorno, in provincia di Parma.
Basaglia non è un antipsichiatra, perché non nega la malattia ma la cura: gli antipsichiatri dicono che la malattia mentale non esiste, Basaglia che esiste ma è trattata in modo improprio. Basaglia non è solo lo psichiatra che chiude i manicomi, perché la deistituzionalizzazione non riguarda solo un luogo fisico ma anche un luogo mentale, politico, culturale. “Abbiamo fatto la legge 180? Bene. I manicomi non ci sono più? Bene. Non celebriamo Basaglia ma cerchiamo di capire dove sono le istituzioni che oggi opprimono, che diminuiscono diritti, poteri e libertà delle persone – dice Saraceno – La battaglia è l'empowerment, è la restituzione di potere alle persone, il potere di essere cittadini, uomini e donne complessi, ricchi di bisogni e di identità. La biopsicomedicina coglie solo un frammento della complessità di bisogni, della ricchezza di una persona, ma noi non vogliamo che le persone abbiano una sola identità: non sono solo malati, tossicodipendenti, migranti. Si è cittadini nella misura in cui si possono esercitare poteri e saperi multipli”.
E quindi perché Basaglia è importante per i giovani di oggi? “Nel clima culturale odierno dove predominano bugie, manipolazioni della realtà, fake news, brutalità, aggressività, c'è bisogno di curiosità culturale, di domande complesse e di risposte altrettanto complesse – dice Saraceno – Sento che c'è il bisogno di ribellarsi, di interrogarsi, c'è bisogno di conflitto ma non per insultarsi sui social network. C'è bisogno di fare politica, ritrovare la piazza, il senso del governo della cosa pubblica, della bontà. E per bontà intendo la comprensione della complessità, la voglia di farne parte e di mettersi in gioco come persone”. E allora torniamo a Basaglia, uomo coraggioso perché pur da dipendente pubblico, da uomo delle istituzioni, ha saputo opporsi: “Allo stesso modo noi dobbiamo capire quali sono le istituzioni che oggi ci opprimono e cosa vuol dire opporsi non tirando i pomodori o bastonando ma riscoprendo lo sforzo collettivo per il governo della cosa pubblica”.
Alla fine della lectio magistralis, Benedetto Saraceno ricorda un episodio personale della sua esperienza con Basaglia. “Lavoravo a Trieste e mi avevano informato che il mio reparto da lì a due mesi sarebbe stato chiuso, le persone trasferite in appartamenti e altre strutture. Basaglia visita il reparto, mi fa chiamare, mi fa notare che il soggiorno è squallido e mi dice di comprare delle tende perché al pomeriggio la luce è abbagliante, fa caldo, non c'è intimità. Io gli faccio notare che entro due mesi il reparto chiude e lui obietta 'eh, ma stacci tu due mesi senza le tende'. In quella risposta, c'è tutto il rispetto di Basaglia verso le persone e la volontà di rendere la loro vita quotidiana migliore”.
Benedetto Saraceno è convinto che Franco Basaglia sia stato quello che nel 1943 per molti fu Antonio Gramsci: “Gramsci non ha costruito la sua politica antifascista a partire dalla teoria, ma ha fatto il contrario, ha costruito la teoria partendo dalla pratica e la pratica per lui è stata la carcerazione. Allo stesso modo Basaglia ha praticato il cambiamento, la trasformazione della vita quotidiana delle persone, per arrivare alla teoria – conclude – La sua lezione è attuale, politica, morale e riguarda i muri che abbiamo dentro e quelli che ci sono fuori. Di lavoro da fare ce n'è tanto se si vuole essere basagliani nel 2024. Nulla da celebrare, solo da continuare”.
Guarda la lectio magistralis di Benedetto Saraceno.
Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi
...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...
Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo Pini, di Milano.
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