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“Ci vuole una città”: come dare risposte concrete ai bisogni di salute mentale?

aggiornato al | Staff | ARTICOLI

di Federico Mascagni, redattore di Sogni&Bisogni

Col nuovo anno riprende la plenaria del progetto metropolitano “Ci vuole una città”, inteso a costruire luoghi di comunicazione e pratiche per la salute mentale della cittadinanza.

Foto tavoli senza date

Il progetto ha raggiunto una sua fase matura, in cui all’adesione e alle proposte seguono le osservazioni e le critiche, necessarie a costruire un progetto concreto e utile. Per questo il DSM-DP dell’Ausl di Bologna invita le associazioni, gli operatori, i familiari e gli utenti della salute mentale a partecipare.

L’incontro, presieduto dal direttore del DSM-DP Fabio Lucchi e coordinato da Matteo Vignoli dell’UNIBO, ha presentato alcune pratiche esemplari su progetti partecipativi prodotte dal Politecnico di Milano, dalle quali è risultato come il coinvolgimento diretto della cittadinanza non solo vada a soddisfare i desideri dei diretti interessati, ma costituisca forme di collaborazione fra diversi portatori di interessi, dalle istituzioni alle associazioni fino al mondo imprenditoriale, che difficilmente si riuniscono allo stesso tavolo. Rimane il dubbio sul peso effettivo di ogni singolo partecipante in relazione al potere decisionale che questi riescono di fatto a rappresentare. Questo è uno dei punti critici da affrontare per trovare un modello che sia orizzontale e non nuovamente verticistico.

L’ambito disciplinare che costruisce questi modelli viene definito Design dei Servizi, ed è stato riassunto con chiarezza dalla professoressa Daniela Sangiorgi, insegnante di Progettazione dei Servizi al Politecnico di Milano: “L’apporto del design sta nella centralità della persona, nel riconoscimento delle competenze reciproche, nella centralità dell’esperienza vissuta. L’utente deve diventare agente della propria vita. Il Design cerca di rendere visibili attraverso metodologie e strumenti le necessità e le richieste e sviluppa le capacità di collaborare, di organizzarsi, di partecipare”. Nelle sessioni di co-progettazione, ha spiegato la professoressa Sangiorgi ci sono professionalità diverse che devono sapere dialogare ma anche portare competenze da armonizzare.
Le sfide sono quelle, ha proseguito, “di garantire una partecipazione autentica, trovando le modalità e le forme che riescano a garantire entusiasmo, continuità, proposte”.

L’esempio più prossimo a quanto si sta costruendo a Bologna è quello del Recovery Co-Lab di Brescia, voluto anch’esso dal dottor Lucchi durante presso il suo precedente incarico presso il DSM cittadino. Finanziato dalla Fondazione Cariplo, il laboratorio messo a stretto contatto col territorio ha costituito gruppi misti di cittadini che, dopo una selezione delle opportunità presenti in quartiere (corsi di scrittura, formazione, attività ludiche), hanno gestito, attraverso un community manager, le offerte del territorio armonizzandole con le richieste e le necessità degli utenti e dei cittadini in generale.

Nel pomeriggio iniziano i commenti e le osservazioni dalla platea. Si chiede come intervenire per coinvolgere i medici di base in un progetto di cura territoriale che comprenda anche la salute mentale. Si è richiesto che i modelli, per quanto laici, non rappresentino l’ennesima idea velleitaria ma siano strumenti per la realizzazione di progetti concreti. Il problema semmai è la mancanza di approccio di comunità, del senso di prossimità. Dopo l’individuazione delle Case di Comunità (fino a ieri Case della Salute, nota qualcuno) come collettori delle esigenze di salute dei cittadini bisogna evitare di riprodurre ambulatori dentro ad ambulatori come in una sorta di scatola cinese di servizi e laboratori che già esistono. Si pretende originalità da un progetto della portata di “Ci vuole una città”. Qualcuno sottolinea la necessità di un approccio preventivo oltre al trattamento di un target già patologico. Ma come fare, risponde il direttore Lucchi, con l’esubero di pazienti e la carenza di operatori, come gli psichiatri degli ospedali che si ritrovano a gestire in un paio di persone le urgenze? Dalla platea rispondono che è necessario capire quali sono le leve strutturali necessarie di là da ogni processo partecipativo. Non può essere solo il medico né l’ambulatorio a rispondere ai disagi. Bisognerà certamente individuare chi ha l’attitudine e la professionalità per coordinare i singoli luoghi deputati dal progetto a riunire la cittadinanza. Gli educatori sembrano essere le persone più giuste, ma con quali fondi?

Insomma, ci si lascia con una fila di domande, dubbi, ipotesi e critiche. È iniziata, come detto in principio, la fase matura del progetto “Ci vuole una città”. Grazie al confronto fra i designer dei servizi e chi dei servizi è operatore, familiare, utente, cioè parte in causa, ci si aspetta un approfondimento dei lati più complessi di un progetto che intende dare una risposta alle necessità degli invisibili.




 

Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi

La Terra Santa

...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...

Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo  Pini, di Milano.

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