di Federico Mascagni, redattore di Sogni&Bisogni
Nulla è più ambizioso di un progetto che preveda sul medio-lungo termine l’attenzione e la totale dedizione di una persona con disturbi mentali. È decisamente una sfida, e come tale è estremamente selettiva. Non si tratta di lasciare qualcuno indietro, ma di individuare le persone idonee a svolgere un compito delicato: quello di Esperto in Supporto fra Pari.
Per dare un’idea, più di un anno di avanti e indietro mattutini da Bologna a Reggio Emilia, dove si tiene il corso per diventare ESP. Sveglia presto per prendere il treno delle 7 e 50, la difficoltà iniziale di mantenere la concentrazione accesa durante l’intero orario delle lezioni, l’eterogeneità di un gruppo talmente marcata da rendere a volte la sopportazione dell’altro difficile. Questo per un periodo formativo lungo, più di un anno, di 200 ore di aula frontale.
Sono considerazioni schiette, che esprimono fatica, difficoltà, insofferenza. Perché provengono da Anna, una delle prime utenti dei Centri di Salute Mentale di Bologna a diventare una ESP. “Fin dal periodo dei primi accessi al CSM Scalo ho sentito l’esigenza di partecipare a gruppi in cui ci fosse la possibilità di scambiarsi esperienze e riflessioni con altri utenti”. Anna ha l’impulso di organizzare incontri, di promuoverli attraverso inviti pubblici che lascia dentro alla sede di Scalo. Sono i segni incancellabili di un passato professionale.
“Io, stalker nel senso buono di psichiatri, appena ne sento uno dire delle cose interessanti ai convegni devo assolutamente approfondire, sentii la necessità di incontrare l’allora direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Bologna per chiedergli cosa fossero questi ESP”. Anna punta le antenne per qualcosa che intuisce essere tagliato su di lei. Anche perché il percorso ESP offre prospettive di formazione spendibili in ogni circostanza di confronto nei gruppi di mutuo aiuto che ha informalmente creato. Di più; all’orizzonte di questo progetto si profila la possibilità di fare di questa esperienza una professione.
Esiste una commissione di selezione a Bologna. Diventare Esperto in Supporto fra Pari non fa per tutti. Non si tratta solo di requisiti personali (non essere troppo centrati su sé stessi, non farlo per soddisfare una esigenza propria ma anzi per sapersi mettere a completa disposizione degli altri, essere in grado di lavorare in gruppo per trovare assieme soluzioni), ma è anche un percorso lungo e difficile. Dopo un breve corso di base Anna viene esaminata da una commissione mista composta da operatori e utenti. “Un utente mi chiese se sarei stata in grado di coordinare una casa famiglia. Risposi ovviamente di no, era qualcosa di spropositato”. Forse una domanda trabocchetto?
Si ritrova proiettata nella faticosa routine del corso di formazione di Reggio Emilia. L’obiettivo: avere un riconoscimento professionale ufficiale, spendibile presso il mondo del terzo settore. Non più volontariato, ma un serio (e coscienzioso) sbocco lavorativo. Perché chi non ha un’occupazione e ha bisogno di soldi (Anna mi confida di essere rimasta molto a lungo con la caldaia spenta anche durante i glaciali inverni bolognesi perché non poteva permettersi le bollette) ha il pieno diritto di vedersi riconosciuto una professionalità adeguatamente retribuita.
È dura impegnarsi per chi vive con una mente ribelle, che davanti agli stress ti costringe a fermarti, comincia a mandarti in tilt emotivo e cognitivo. “Ma è un’esperienza che bisogna comunque tentare di fare. Non direi mai che non è per tutti, perché vorrebbe dire che solo pochi hanno la possibilità di dare una svolta alla propria vita. Voglio pensare invece che ogni persona con un disturbo mentale sia in grado di affrontare un percorso di questo genere: deve solo accettare di essere considerata idonea o non idonea, senza sentirsi per questo sminuita.”
Oggi Anna lavora come ESP in una cooperativa sociale. Ha un regolare contratto, anche se è in prova. Ma conoscendola credo che ce la farà. Perché nonostante il suo carattere forte sa ascoltare. Nonostante le sue fragilità sa combattersi. “L’unica cosa che non riesco ad abbandonare sono alcune attività che svolgevo con le associazioni. Mi sto facendo in quattro per continuare a seguirle perché la nostra parte creativa, generosa, deve mantenersi attiva”. Mettersi in gioco è un modo di dire logoro, ma tutto sommato è bello. La vita se vissuta come gioco ti porta a partecipare. Puoi vincere, puoi perdere. A volte si pareggia. Ma rimane comunque un gioco che vale la pena di essere giocato fino in fondo.
Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi
...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...
Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo Pini, di Milano.
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