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Abitare e salute mentale: voci, esperienze e progetti dal convegno in Santo Stefano

aggiornato al | Staff | ARTICOLI

di Federico Mascagni

La Sala Biagi, nel cuore del quartiere Santo Stefano, è una ex cappella rinascimentale affrescata che ammanta l’istituzionalità del luogo di una bellezza unica. In questo spazio sospeso tra memoria e culto, si è svolto, lungo la giornata del 6 ottobre, il convegno dedicato al rapporto tra abitare e salute mentale, organizzato da Caterina Bruschi, direttrice del Centro di Salute Mentale Savena–Santo Stefano, che ha anche moderato l’intera giornata.

casa

Il convegno è stato strutturato con interventi di voci eterogenee: rappresentanti istituzionali, operatori sanitari, amministratori, educatori, utenti dei servizi, familiari. Un intreccio di storie, pratiche e visioni che raccontano come, nel territorio di Bologna, l’abitare sia molto più di una questione abitativa: è un dispositivo terapeutico, un luogo possibile di cura, autonomia e riconoscimento reciproco.

Le istituzioni: il territorio come spazio di diritti e responsabilità
Ad aprire l’incontro sono stati i saluti istituzionali sono state la presidente del quartiere Santo Stefano Rosa Amorevole e l’assessora al welfare del Comune di Bologna, Matilde Madrid. Dopo i saluti istituzionali di rito, l’assessora ha sottolineato nel suo intervento come la città stia tentando, non senza difficoltà, di coniugare le politiche per la casa con quelle della salute mentale. La casa è un diritto, ma anche un luogo di fragilità e solitudine se i servizi non costruiscono, intorno e dentro di essa, un contesto di relazioni e supporto.

Un messaggio che sottolinea ciò che il mondo della salute mentale bolognese va dicendo da tempo: non è possibile parlare di salute mentale senza parlare di abitare, e non è possibile progettare politiche abitative che ignorino la complessità delle persone senza la collaborazione attiva dei servizi sociali del Comune di Bologna.

Lo sguardo delle istituzioni sanitarie: modelli e realtà quotidiana
Il cuore tecnico dell’incontro ha preso forma quando operatori e dirigenti del Dipartimento di Salute Mentale dell’AUSL di Bologna hanno iniziato a scandagliare i modelli operativi, le norme regionali, la distinzione tra “residenzialità” e “abitare”, e l’impatto che i cambiamenti istituzionali hanno sulla vita degli utenti.

È emersa chiaramente una difficoltà spesso sottovalutata: il divario linguistico fra chi lavora nei servizi e chi li vive. Termini come “trattamento 24 ore”, “supporto leggero”, “gruppi appartamento”, “percorsi individualizzati” rischiano di descrivere mondi non comunicanti. Alcuni operatori hanno ricordato come il modello emiliano-romagnolo rimanga uno dei più articolati in Italia, ma ciò non elimina la necessità di una trasformazione culturale: passare dalla logica del posto letto alla logica del progetto di vita.

Gli operatori: la quotidianità e il lavoro invisibile
Una parte significativa della giornata è stata dedicata al racconto di chi lavora nelle comunità, negli appartamenti supportati, nei centri diurni. Una geografia capillare che attraversa i quartieri di Bologna e che spesso non compare nelle statistiche.
Gli operatori hanno descritto un lavoro fatto di sveglie personalizzate, supporto nella gestione della terapia farmacologica, orientamento economico, accompagnamento nelle attività esterne: dal trekking alle uscite culturali.

Gli utenti: storie di autonomia, desideri e fragilità condivise
Il punto più intenso della giornata è arrivato con le voci degli utenti, introdotti non come testimonianze ornamentali, ma come protagonisti. Un uomo ha raccontato la paura di rientrare ogni volta in una struttura dopo aver fatto “un passo in avanti” verso l’autonomia. Una donna ha spiegato che l’abitare supportato le ha permesso di riappropriarsi della gestione del tempo, del denaro, della cura quotidiana.

Molti interventi hanno insistito su un punto: senza una rete stabile — operatori, vicinato, amici, attività quotidiane — il rischio di ricaduta aumenta. L’autonomia non è un traguardo, ma un processo lungo, nel quale abitare significa sentirsi riconosciuti e non soltanto “collocati”.

Amministratori, associazioni e terzo settore: la sfida del territorio
La presenza dei rappresentanti delle associazioni e degli amministratori ha portato in superficie questioni più vaste: il reperimento degli alloggi, la sostenibilità economica, il rischio di isolamento, la frammentazione normativa.

Molti interventi hanno richiamato la necessità di stringere alleanze più forti con il terzo settore, migliorare la comunicazione con le famiglie, coinvolgere il volontariato senza sovraccaricarlo di responsabilità improprie.
Non è mancata una riflessione sulla solitudine maschile, sulle difficoltà dei giovani e sul peso crescente delle patologie croniche.

Verso una sintesi: l’abitare come cura, la cura come relazione
Da questo convegno emerge un insegnamento semplice, ma complesso da attuare. L’abitare, per le persone con problemi di salute mentale, non è una cornice: è parte attiva della terapia. È il luogo in cui si sperimentano la gestione del tempo, la relazione con l’altro, il recupero di competenze logorate dalla malattia, la costruzione graduale di una nuova autonomia.

L’impressione complessiva è quella di una città — Bologna — che possiede competenze, esperienze e sensibilità diffuse, ma che deve ancora trovare un linguaggio comune fra istituzioni, operatori e utenti. Un linguaggio che non riduca la complessità, ma che sappia raccontarla.
La Sala Biagi, con la sua storia e i suoi muri affrescati, ha fatto da cerniera tra questi mondi: un luogo in cui le parole, le paure, i desideri e i progetti hanno potuto incontrarsi senza gerarchie.




 

Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi

La Terra Santa

...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...

Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo  Pini, di Milano.

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