di Daniele Collina, redattore di Sogni&Bisogni
La storia, si dice, è scritta dai vincitori e dai potenti, dalle persone famose o importanti. Ma chi parla per le vittime, i deboli e i perseguitati sballottati dalla vita senza avere alcun controllo su quello che gli succede?
Questo è il ritratto di una reporter in zona di guerra, Imma Vitelli, che ha seguito tutte le crisi più gravi dopo l'11 settembre 2001, cercando di raccontare la vita degli umili, la loro storia, riconoscendo la loro umanità e il loro diritto ad esistere e ad essere considerati non un numero ma una persona.
Ho conosciuto Imma come mia docente in un laboratorio di giornalismo di un Progetto PRISMA tenutosi durante quattro giorni invernali in bilico tra sole e pioggia all'interno del Provvidone, la casa delle Associazioni della Salute Mentale a Sabbiuno di Castelmaggiore, in provincia di Bologna.
Quello che colpisce di Imma è la passione con cui ci parla del suo lavoro, l'impegno con cui racconta l'importanza di scrivere storie che devono mostrare e non solo dire.
E' nata nel 1970 a Matera in una famiglia in cui aveva grande importanza la cultura orale, le storie tramandate di generazione in generazione. Un universo letterario e narrativo. Giovanissima capisce che il mestiere di giornalista è ciò che la può aiutare per soddisfare la sua curiosità di conoscere il mondo. Fin da quando studia sociologia a Roma collabora con piccole testate giornalistiche, ma deve partire da zero. La svolta è nel consiglio di un collega Iraniano: per imparare veramente a raccontare storie deve studiare a New York, alla Columbia University, dove nel 1997 frequenta un master di giornalismo della durata di un anno. Il padre, che ha sempre creduto in lei, la aiuta economicamente.
Dopo New York non si è più fermata ed è partita la sua avventura in giro per il mondo.
E' stata in Afghanistan, Siria, Libano, Pakistan, Somalia. Ha raccontato in prima persona la primavera araba. Il fatto di essere una donna non l'ha penalizzata quanto si potrebbe pensare. Anzi, in alcuni contesti, soprattutto in medioriente, è stata considerata come giornalista alla pari di un maschio, e come tale in grado di parlare sia con uomini che con donne. Mi racconta solo di un caso in Afghanistan in cui un locale, durante una visita ad una clinica di maternità poco dopo un terremoto, l'ha apostrofata chiamandola con disprezzo “mezzo uomo”, consigliandole di stare a casa con il marito e con i figli (che lei peraltro non ha). Imma gli sorrise, misurando la distanza, geologica, tra le loro vite.
L'esperienza che l'ha segnata di più è stata durante la sua prima vera guerra, il conflitto tra Libano e Israele nel 2006, in cui al contrario di tutte le colleghe donne rimaste al sicuro a Beirut, si era spinta a Sud insieme ad altri giornalisti uomini fino a giungere in un piccolo paese di nome Cana, teatro di un massacro, da parte degli israeliani, di una cinquantina di persone tra cui anche bambini. Una scena molto forte che non l'ha più abbandonata. Lì ha scoperto cosa significa essere giornalista in contesti di guerra: è un testimone che con la sua semplice presenza restituisce un’umanità alle vittime. Questa importanza di testimoniare gli ultimi gli è stata insegnata anche dall'amico e collega statunitense Anthony Shadid, premio Pulitzer nel 2004 e nel 2010 per gli articoli scritti sulla guerra d'Iraq e ucciso in Siria nel 2012: raccontando la storia di queste persone si rende un servizio all'umanità.
Non ha scritto solo di conflitti; ha fatto sentire le voci dei deboli, dei piccoli che si trovano in contesti di ignoranza e povertà. Ha fatto conoscere al mondo le loro storie. Nel 2017 ha scritto un reportage dalle Filippine, raccontando la storia di un giovane, Theodoro Bucado, tenuto da 25 anni in una gabbia perché considerato posseduto dal maligno e curato con riti magici da sedicenti stregoni e sciamani, quando invece era un caso di schizofrenia, malattia mentale ben conosciuta e ampiamente curata nei paesi ricchi ma che lì, un Paese con soli 400 psichiatri per 100 milioni di abitanti, è ignorata soprattutto nelle zone dove vivono a braccetto povertà, ignoranza e superstizione. La storia di Theodoro ha il lieto fine: uno psichiatra giunto nel suo villaggio grazie ad una associazione ha convinto la madre a dargli le giuste medicine permettendogli così di uscire dalla gabbia e tornare ad essere un uomo.
Oggi Imma non fa più la reporter di guerra ma scrive libri, soggetti per il cinema e insegna in laboratori e corsi come questo in cui l'ho incontrata. A una mia specifica domanda ha risposto di non avere rimpianti né professionalmente, né umanamente. Tutto quello che ha visto e vissuto ha contribuito a farla diventare quella che è oggi. Non avrebbe potuto fare diversamente. Soprattutto ha sempre cercato di imparare, di non vivere invano, di essere una persona onesta. Alla lunga, insieme agli altri giornalisti del nostro tempo, ha maturato un senso di impotenza. Pur raccontando gli orrori della guerra niente cambia. Diventa difficile continuare a correre dei rischi per un lavoro importante ma per il quale si paga un prezzo personale piuttosto alto. Ma nonostante tutto ciò non cambierebbe la sua vita per niente al mondo. È stata interessante, travolgente per molti aspetti.
Per finire mi racconta di un episodio in cui si è sentita veramente utile, quando in Afghanistan scoprì che in una zona del paese i governanti, non i talebani, violentavano delle bambine. L’articolo che ne seguì suscitò molto scalpore in Italia e con una raccolta fondi fu possibile comprare un pezzo di terra per la famiglia di una bambina e un taxi per un'altra famiglia.
Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi
...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...
Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo Pini, di Milano.
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