a cura di Giovanna Basile, psicologa Uoc psicologia, NPIA Pianura, AUSL di Bologna
“La cosa che mi ha reso contenta oggi è che i prof si vedeva che avevano proprio voglia di vederci, gli eravamo mancati, per davvero” racconta Laura, tutta occhi grandi e malinconici nel volto magro, nascosto dalla mascherina.
Laura che è tornata a scuola “tre giorni sì e tre no”, con la paura che le venisse un attacco d’ansia perché uscire ora è più difficile, a casa si è più al sicuro, protetti. Laura che durante il primo lockdown si è sentita tirare giù da così tanta tristezza, lei che amava lo sport e stare in compagnia, che ha cominciato a perdere peso, chilo dopo chilo, senza sapere neppure il perché.
“Io a scuola non ci voglio andare, sto meglio qui. Che poi se devo andare a scuola e beccarmi una verifica dopo l’altra, sai che pacchia, che neppure posso copiare come a casa. I prof ci hanno detto che appena rientriamo cominciano le verifiche, hanno bisogno di voti per chiudere il quadrimestre, e non gli interessa se noi stiamo male” mi dice Luca, perso nella sua felpa immensa. Lui che di assenze ne faceva già tante prima e ora sente di non poter tornare più, “perché non sopporto di deludere tutti e allora mi metto a giocare per non pensarci e poi si fa tardi e mi viene l’ansia per tutto quello che devo ancora fare e sono così deluso da me stesso che continuo a giocare, così non ci penso più fino a domani”. Luca, che se ne resta in camera e gioca fino a tarda notte per cancellare questa immagine di sé che tanto lo angoscia.
“È stato bello tornare, anche se mi aspettavo di più, dopo tanto tempo. Ma almeno riuscivo a stare attenta, che con la dad non riesco a non distrarmi, devo sempre fare qualcosa d’altro mentre ascolto, tipo disegnare, sennò mi perdo. E mi stanco tantissimo, non sai quanto mi stanco. Sarà normale che mi sento così tanto stanca?” Mi chiede Giulia, così bella e delicata nei suoi 15 anni, tradita da un corpo che se la stava portando via in silenzio, con la violenza e la determinazione di un ultimatum.
E c’è Filippo, che stava meglio, molto meglio e aveva cominciato a uscire con un amico, lui così schivo e spaventato, e che ora è tornato a rifugiarsi dentro a una bolla di paura e solitudine. Ed Elena, che non prende più l’autobus perché l’ansia è troppa e Giada che sente un vuoto dentro, come un buco nero che risucchia tutta l’allegria e si taglia per agire il dolore e non sentirlo più.
E Paolo, Elettra, Santiago e tanti altri che hanno avuto il coraggio e la forza di portare la loro storia con sé e srotolarla perché potessimo ascoltarla insieme.
Sono una psicologa e come psicologa dell’età evolutiva lavoro con i più fragili, lavoro con chi incontra difficoltà non solo a scuola, ma più in generale nella vita. Il mio osservatorio è questo, nessuna pretesa di scientificità o di generalizzazione, né alcuna considerazione conclusiva da offrire, solo il desiderio di condividere alcune riflessioni e, soprattutto, alcune domande.
Che d’altra parte, se come società, come sanità, come scuola, partiamo a ripensarci dai più fragili, tutti ci guadagneranno. E i più fragili, per quel che possiamo capire dai dati che cominciano ad emergere giorno dopo giorno, stanno peggio.
Ciò che fa più male è che sapevamo che sarebbe successo.
Perché abbiamo scelto di chiedere ai nostri ragazzi un sacrificio grande in questi ultimi mesi. Abbiamo chiesto loro, ancora una volta, di sacrificarsi per proteggere i loro genitori e i loro nonni, privandoli, ancora una volta, delle loro relazioni, della loro libertà e della loro vita fuori. Lo abbiamo chiesto, ancora una volta, ben sapendo che la scuola, per una generazione che sta crescendo sempre più in solitudine, sempre meno dentro relazioni in carne ed ossa e sempre più immersa dentro il mondo dei social e dei like, è rimasta l’occasione centrale e fondamentale di relazione. Il contesto centrale in cui, attraverso gli altri, si diventa se stessi. Sapevamo che sarebbe successo. Che la ricaduta in termini di malessere ed esclusione sociale sarebbe stata pesante.
Possiamo ancora fare qualcosa?
Possiamo fare sì, da adulti autorevoli, che la ricerca di una risposta alle domande che questo malessere porta con sé non diventi qualcosa da lanciarsi gli uni contro gli altri, in una caccia al di chi è la colpa, della famiglia assente e delegante, della scuola a suon di verifiche e crocette, dei ragazzi fragili e senza regole, della sanità disattenta e distante, ma si trasformi in una occasione di ripensare insieme, come comunità educante, risposte che prestino più attenzione e cura al mondo dei ragazzi?
Possiamo cioè fare sì che occuparsi dei ragazzi e del loro benessere rimanga preoccupazione e responsabilità di tutti e colpa di nessuno?
Possiamo evitare, perché questo possiamo ancora farlo, che ad un bisogno prima di tutto sociale, educativo e comunitario si finisca per trovare soltanto una risposta sanitaria e patologizzante?
Luca tira giù il cappuccio e mi guarda, con quel suo sguardo rapido e veloce. Negli occhi suoi, bellissimi, c’è il nostro futuro. Custodiamolo.
Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi
...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...
Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo Pini, di Milano.
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