di Laura Pasotti, redattrice di Sogni&Bisogni
A breve la Casa degli Svizzeri di via Terracini, a Bologna, non ospiterà più una Residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Alcuni pazienti sono già stati trasferiti nella nuova struttura di Reggio Emilia, che con i suoi 30 posti accoglierà le persone con problematiche psichiatriche, autrici di reato e socialmente pericolose da tutta la regione. Dei 14 posti a Bologna, al 24 novembre ne erano occupati 9.
Archivio Ausl Bologna Foto Paolo Righi/Meridiana Immagini
La scelta, appena si è saputo della chiusura, è stata quella di trasferire a Reggio Emilia gli ultimi arrivati, per dare più tempo di elaborare il distacco a chi aveva rapporti terapeutici e lavorativi più articolati. “Abbiamo saputo a fine settembre della chiusura e non c'era tempo sufficiente per esportare i percorsi più importanti – spiega Federico Boaron, direttore dell'Unità operativa Psichiatria forense dell'Ausl di Bologna, a cui afferiscono la Rems e l'assistenza psichiatrica all'interno della Casa circondariale di Bologna – Perciò per evitare che questi percorsi si sfilaccino stiamo cercando di dimettere tutti i pazienti dimissibili sia sul piano terapeutico che su quello giudiziario”.
L'Emilia-Romagna è stata una delle prime Regioni a dotarsi di strutture sanitarie alternative agli Ospedali psichiatrici giudiziari chiusi il 31 marzo 2015 in base alla legge 81/2014 (in regione ne era presente uno a Reggio Emilia). In attesa della realizzazione di una struttura a Reggio Emilia (che è stata ultima nel dicembre 2021) ad aprile 2015 sono state aperte due Rems temporanee per accogliere le persone in uscite dall'Opg: a Bologna e a Casale di Mezzani (Parma).
Oggi in Italia ci sono 31 Rems che a fine novembre 2020 (dati Report Antigone 2022) ospitavano 551 persone, in gran parte uomini. È il dato più basso nella storia delle misure di sicurezza detentive dal Dopoguerra a oggi. Sempre a fine novembre 2020, il sistema Smop (Sistema di monitoraggio per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari) segnalava la presenza in tutto il territorio nazionale di 175 persone in attesa di entrare in una Rems, di cui il 31% in carcere. Quest'ultimo dato potrebbe essere fortemente sottostimato secondo quanto riferisce Antigone.
Bologna e la sfida della Rems
Nel 2015, in Italia e nel mondo, non c'erano modelli sovrapponibili a quello delle Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza e, come racconta Boaron, “l'idea di ospitare in una struttura esclusivamente sanitaria le persone uscite dagli Opg era una bella sfida. Ed è partita con un po' di paura da parte di tutti, molto entusiasmo e qualche polemica dai colleghi dell'Ausl perché spaventati dal fatto che noi non siamo presenti in Rems 24 ore su 24, ma c'è un turno di reperibilità notturna e questa reperibilità aveva intimorito alcune persone".
Un altro aspetto che intimoriva era il rapporto con il mondo giudiziario. “Avevamo tutti pochissima dimestichezza con le procedure e temevamo che le difficoltà organizzative di un sistema sanitario complesso andassero a collidere con la burocratizzazione della giustizia e con il fatto che tutto ciò che accadeva ai pazienti doveva essere autorizzato da una persona esterna non presente nella struttura ovvero il giudice”.
La prima autorizzazione per portare un paziente fuori dalla Rems è arrivata dopo due mesi, “e ci è costata tre settimane di lavoro – dice Boaron – Oggi superiamo le mille licenze annue per i 14 pazienti. Prima la licenza esterna era vista come qualcosa di straordinario frutto di equilibrismo tra vari attori e che metteva un po' paura, oggi è vista come qualcosa che fa parte del nostro lavoro che non abbiamo paura di organizzare. Le cose sono cambiate tanto”.
Le attività dei pazienti
Le Rems sono strutture sanitarie inserite in un programma di riabilitazione gestito dai Dipartimenti di salute mentale delle Ausl di residenza in stretto contatto con l'autorità giudiziaria.
La Rems di Bologna ha avviato attività interne ed esterne di tipo terapeutico, riabilitativo e di svago (pur se in ottica di riabilitazione). Ci sono pazienti che giocano a calcetto con l'associazione I diavoli rossi, altri che fanno ippoterapia con i cavalli del Paddock, c'è chi ha seguito corsi di musica, teatro, scacchi. Quest'ultimo, tenuto da un istruttore della Federazione scacchistica italiana “ha riscosso un grande successo. L'avevamo organizzato perché una persona era interessata, ma alla fine la metà dei pazienti ha partecipato e, soprattutto, quando il corso non c'era tutti giocavano a scacchi per ore”.
Tra le attività esterne ci sono anche il lavoro e la scuola. “Uno dei ragazzi in struttura ha frequentato la scuola e ha preso la maturità lo scorso giugno. Ora è stato dimesso e ha subito trovato lavoro nel libero mercato. È uno dei nostri orgogli”.
Un modello che funziona
Dal 2015 a oggi, la Rems è diventata un “modello”, che funziona. Negli anni, gli operatori hanno preso confidenza con il target di pazienti e hanno imparato a valutare in modo personalizzato i loro bisogni. Si è sviluppato un rapporto con la magistratura che ha reso più fluide le procedure per le uscite: “Prima era un lavoro continuo su ogni richiesta, oggi abbiamo pacchetti da 20/30 licenze da utilizzare per ogni paziente”. Il budget di salute ha ampliato l'orizzonte delle attività che si possono fare, in termini qualitativi e fornendo operatori in più, “perché è vero che alcuni pazienti sono più autonomi ed escono da soli per il tirocinio, ma in gran parte sono accompagnati, non solo per un controllo, ma anche per affiancarli nel percorso di riavvicinamento alla socialità”.
La possibilità di avviare tirocini formativi per i pazienti è stato un passaggio importante. All'inizio sembrava impensabile che un paziente della Rems uscisse per andare a lavorare, oggi sono in tanti a farlo: “I tirocini sono mediati da cooperative sociali ma sono attività autentiche e, per quanto gli stipendi non siano ricchi, sono pagate. Oltre a dare una remunerazione economica, i tirocini consentono anche di allenarsi al rientro in una quotidianità normale”.
Le prime persone che sono entrate in via Terracini arrivavano dall'Ospedale psichiatrico giudiziario, oggi alcune arrivano dalla libertà, ma la maggior parte dal carcere. “Lì il tempo è spesso vuoto, privo di significato – dice Boaron –, è il tempo della noia e dell'attesa. Tornare ad avere una giornata scandita da impegni è costruttivo, fa parte della cura”.
La costruzione di una comunità
La Rems di via Terracini, dal 2015 a oggi, ha sviluppato alcuni aspetti propri di una comunità, “non una comunità psichiatrica, ma di vita, insieme ad altre persone”, specifica Boaron.
Un esempio? Quotidianamente, i pranzi per gli ospiti arrivano dalla mensa dell'Ospedale Maggiore (monoporzioni, incellofanate), ma c'è la possibilità per chiunque, organizzandosi per tempo, di fare la propria spesa e cucinare per sé e per altri. Una volta alla settimana si può ordinare dal take away, “un po' come si fa in tutte le famiglie”. E alla domenica (due volte al mese) c'è un momento di convivialità in cui una persona o un gruppo di persone organizza una merenda, un pranzo o una cena per tutti. Una sorta di invito, nel giorno di festa. “Si tratta di iniziative organizzate su base volontaria ma sono possibilità in più che danno il metro di come si possa vivere in situazioni non conflittuali, gradevoli e dovendo gestire le differenze di vedute”.
L'équipe della Rems
Tutti gli operatori che in questi anni hanno lavorato alla Rems lo hanno fatto per scelta propria. Nessuno è stato forzato a far parte dell'équipe, “perché la delicatezza delle problematiche dei pazienti richiede un livello di motivazione un po' più alto”.
Sono una trentina gli operatori che hanno lavorato nella Rems (con un rapporto terapeutico molto intenso, 2 a 1). Tutti hanno seguito una intensa attività di formazione congiunta che, pur mantenendo le specificità di ognuno, garantisse un atteggiamento complessivo coerente.
La formazione ha riguardato anche la relazione con i pazienti: nei due mesi precedenti all'apertura è stato fatto un percorso insieme a Maria Grazia Fontanesi, psicologa con una lunga esperienza nell'Opg di Reggio Emilia che poi ha lavorato nella Rems di Bologna e oggi si è trasferita in quella di Reggio Emilia, e a psichiatri che si occupano di psichiatria forense trattamentale.
“Abbiamo dovuto imparare a confrontarci con pazienti difficili ed estremamente diffidenti, con storie di vita complicate e rapporti con i servizi altrettanto complicati – spiega Boaron – Il costrutto è opposto a quello dello psichiatra di libera professione che una persona cerca di propria iniziativa; alla Rems ti ci manda un giudice e ti ritrovi davanti uno psichiatra che non hai scelto. Il vissuto di queste persone, spesso, è 'non mi hanno aiutato abbastanza' o 'tutti quelli che ho incontrato hanno fallito', perciò è necessario riguadagnare la loro fiducia, costruendo relazioni che superino questa diffidenza”.
I risultati sono variabili, dice Boaron: “La Rems è un luogo ad alta intensità relazionale in cui la maggior parte delle relazioni sono di rispetto e fiducia reciproca. Però rispetto e fiducia richiedono tempo, e io mi sento di dire che siamo riusciti a costruirli nella maggioranza dei casi”.
Questo clima di fiducia consente all'équipe della Rems di avere un'impostazione riabilitativa e terapeutica anche al di fuori del setting della riabilitazione e della psicoterapia. Un caffè al bar, due chiacchiere in giardino, una partita di ping pong sono occasioni di relazione, “sono rapporti di cura in setting diversi da quelli usuali. Non si tratta di empirismo incentrato sul 'vogliamoci bene', ma del costrutto del 'confronto empatico': mentre svolgo attività nella vita di tutti i giorni, posso far notare al paziente quando le sue relazioni sono comprensibili e adeguate alle circostanze e quando invece sono disfunzionali. In un setting rigido e strutturato diventa una modalità insegnante-alunno, mentre nel corso di altre attività è quasi come il rapporto che si ha con un coach sportivo ed è più accettabile”, precisa Boaron.
L'altro costrutto è quello della rigenitorializzazione parziale (Limited reparenting). “La maggior parte dei pazienti ha avuto esperienze di accudimento nell'infanzia e nell'adolescenza molto inadeguate e sappiamo che gli eventi traumatici nell'infanzia sono un maggior predittore di patologie, sofferenza e di risultati peggiori sul piano giudiziario, della salute fisica, sociale, relazionale e lavorativa”. Con queste persone non è realistico costruire un rapporto del tipo genitori-figli, quello che si può fare è costruire una relazione di fiducia in modo parzialmente simile al ruolo genitoriale per favorire modalità di comportamento sempre più adeguate.
Qualche dato
In 8 anni sono poco più di 50 le persone che sono passate dalla Rems di Bologna. Qualcuno è rimasto per qualche mese, altri per un paio di anni e qualcuno più a lungo. La maggior parte è stata dimessa all'interno di percorsi terapeutici riabilitativi (continuano il lavoro in una struttura diversa), mentre altri hanno fatto ritorno a casa propria.
Negli ultimi anni la media dell'età si è abbassata notevolmente e c'è stata una forte presenza di persone sotto i 30 anni. “Una presenza che porta sfide diverse – dice Boaron – Una sfida riabilitativa che ti dà l'idea che lavorando bene puoi davvero migliorare la prognosi e l'outcome non solo di salute mentale ma anche sociale e relazionale. Cosa che magari con persone più avanti negli anni risulta maggiormente complicato”.
La sfida di Reggio Emilia
I percorsi sul territorio (attività riabilitative, di svago, tirocini formativi, lavoro, istruzione) sono frutto di un lavoro di rete, di costruzione di fiducia tra paziente, operatori della Rems e operatori esterni. “Abbiamo impiegato qualche anno per innescare questo rapporto di fiducia, perché il paziente della Rems si porta dietro sia lo stigma del reato sia quello della malattia psichiatrica. Reggio Emilia si sta attrezzando per mantenere quanto più possibile ciò che è stato fatto, alcune attività prenderanno piede subito come quelle sportive visto che lì sono molto attrezzati. Ma dobbiamo tenere presente che la struttura è ancora in rodaggio quindi ci vorrà un po' di tempo”.
Viene da chiedersi se i 30 posti della nuova struttura saranno sufficienti per l'intera regione. “Non si può rispondere a questa domanda – dice Boaron – La lista d'attesa non la fa la Rems, ma un meccanismo simile a quello di un lago: c'è un immissario che è il sistema giudiziario e un emissario che è il sistema dei Centri di salute mentale. Quanta acqua deve contenere il lago va stabilito con gli invianti e con chi agevola le dimissioni. Invece di domandarci se 30 posti sono pochi o troppi, dovremmo chiederci se sul territorio ci sono le risorse sufficienti per fare in modo che quei 30 posti bastino. E perché sia così servono competenze ultraspecialistiche nei Csm, dove stanno sviluppando équipe dedicate all'interfaccia con il mondo forense, e soprattutto servono risorse”.
Valorizzare le competenze e la rete di relazioni
La struttura di via Terracini non chiuderà, ma sarà riorganizzata. Anche se ancora non vi è certezza su quale sarà la sua destinazione. “Da parte mia e di tutta l'équipe c'è, da un lato, grande entusiasmo per quello che abbiamo costruito in quella struttura, e, dall'altro, il dispiacere per la sua chiusura – conclude Boaron – La speranza è che le competenze sviluppate in questi anni dagli operatori e la rete di relazioni costruite dai pazienti non vadano disperse. C'è da parte mia una grande stima verso il gruppo che si è creato alla Rems: spesso i riflettori sono puntati su di me, ma chi si gioca la propria professionalità nella relazione con i pazienti, ad esempio facendo le notti, sono molto più gli operatori e gli infermieri, che non i medici”.
Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi
...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...
Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo Pini, di Milano.
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