a cura di Danilo Rasia, presidente dell’Associazione Territoriale per l’integrazione Passo Passo
Non è facile di questi tempi così problematici fare delle valutazioni puntuali e aggiornate di come vanno le cose per le persone con disabilità sulle nostre zone, data l’estrema limitatezza dei contatti tra e con gli interessati e la rarefazione delle occasioni di confronto interistituzionale.
Non posso quindi che condividere più che altro dei punti di vista personali, sicuramente non esaustivi e comunque aperti ad un confronto, ma anche a delle precisazioni o addirittura delle rettifiche da parte di altri se ragionevolmente fondate.
Per un verso, date le restrizioni cautelative dal punto di vista sanitario, il risiedere in paesi tra valli e monti o in borghi isolati è vista e forse anche vissuta come una “fortuna”, rispetto a chi sta in città, tanto più se in condomini o in quartieri ad alta densità abitativa. E’ più facile infatti dalle nostre parti muoversi in tranquillità da soli o con i propri familiari in ampi spazi all’aperto, tra campagne e colline, o passeggiare nei boschi, così da scaricare tensioni o rasserenarsi godendosi la natura e ciò che di bello essa offre.
E’ pur vero però che annose problematiche del territorio montano permangono e possono anzi accentuarsi in questa situazione difficile che stiamo vivendo tutti. Mi riferisco in particolare al problema dei trasferimenti per accedere ai Servizi, ma anche per i movimenti degli stessi operatori sanitari e sociali. La prima conseguenza è una riduzione di fatto degli interventi, sia di monitoraggio e di “accompagnamento” da parte di specialisti di riferimento, sia di percorsi terapeutici o educativi. Se poi si aggiunge anche una eccessiva centralizzazione di alcuni servizi specifici, come quelli della Casa del Giardiniere per l’autismo e del Programma Integrato Disabilità e Salute, ancor più viene percepita questa riduzione, se non addirittura un’assenza di interventi appropriati e continuativi. C’è da riconoscere al contrario la dislocazione programmata sul territorio della possibilità di interventi di odontoiatria specializzata per le persone con disabilità, coordinata dalla dott.ssa Baietti e prima accessibile esclusivamente presso l’Ospedale Bellaria.
Della difficoltà per gli spostamenti, ma anche di una certa frammentarietà territoriale o di una certa “chiusura nel proprio mondo” di alcune realtà locali, ne risente anche la possibilità di ipotesi progettuali condivise con associazioni per integrare Servizi o per migliorare il benessere delle persone e favorire la loro integrazione sociale. Ciononostante vanno segnalate iniziative comunali o intercomunali che vanno in questa direzione e che in qualche modo rispondono soprattutto al bisogno di socialità. Mi riferisco tra l’altro anche agli ultimi progetti distrettuali relativi ai bandi regionali per le ODV e le APS, condividendo bisogni e possibili risposte con l’Ufficio di Piano, in quanto coordinatore della programmazione dei Servizi e di altre opportunità territoriali integrative degli stessi.
Va inoltre riconosciuto come significativo e forse unico a livello metropolitano il tentativo di una co-progettazione distrettuale dei Servizi propedeutici al “Dopo di noi” in seguito al relativo bando regionale, che ha visto co-protagonista il Terzo Settore locale, sia delle Cooperative che delle Associazioni coinvolte nel prendersi cura di persone con disabilità.
C’è un problema, a mio avviso più accentuato che altrove, per quanto riguarda l’integrazione lavorativa, se percorribile da parte dei potenziali interessati: il territorio montano, a parte qualche rara e apprezzabile eccezione, offre poche opportunità di possibile inserimento nel mondo del lavoro, fosse anche tramite semplici tirocini. Ciò può portare anche involontariamente a privilegiare da parte dei Servizi delle ipotesi alternative di impegno o di semplice occupazione da parte delle persone con delle difficoltà, rischiando così in qualche caso una deriva puramente assistenziale e interminabilmente “educativa”, e da parte delle famiglie stesse ad accontentarsi di ciò che si riesce ad avere, pur limitato che sia. Di conseguenza nelle persone con disabilità o con problematiche psichiche si può assistere ad una diminuzione se non ad un crollo dell’autostima, ad un senso di inutilità, di vuoto o di “noia” o comunque di disagio e malessere, non favorendo in alcuni la propria emancipazione e la propria autodeterminazione, oltre che un vero inserimento sociale alla pari degli altri, tanto più se di fatto frequentano ordinariamente solo o prevalentemente persone con problematiche analoghe alle loro, se non anche più accentuate e più evidenti delle loro. Certamente però in certi casi quest’ultimo particolare può anche funzionare se c’è stata una maturazione e una sensibilità personale che porta a rendersi e sentirsi utili ad altri se trovano una qualche risposta a dei loro bisogni da propri compagni di vita, pur essi stessi con delle difficoltà.
Le problematiche per gli spostamenti, come pure la scarsità di opportunità “lavorative” o di possibilità di “affiancamento” o sostegno per una integrazione sociale, evidenziano ancora di più la differenziazione tra ciò che viene garantito, pur giustamente, a persone che frequentano dei centri socio-riabilitativi quale soluzione per loro più appropriata, e le mille problematiche e difficoltà per altre persone con disabilità nel garantire alla pari un progetto di vita sul territorio, il più possibile nella normalità di tutti, con ciò che esso richiede in termini di bisogno di supporto.
Così pure nell’attuale situazione di rischio pandemico, si evidenzia una diversità di attenzione nel pensare alla sicurezza sanitaria più che altro delle strutture per disabili e di chi le frequenta, e non a garantirla a tutte le persone con disabilità in tutti i contesti possibili di vita (certamente compresi anche i centri socio-riabilitativi), secondo il progetto personalizzato e gli specifici bisogni di ognuno, e di chi sta o si relaziona con loro anche in termini educativi o assistenziali o di semplice “relazione di aiuto” (anche da parte dei familiari e di eventuali volontari).
E’ sempre aperto anche sul nostro territorio e forse ancor più particolarmente sentito il problema della mancanza di un riferimento sanitario specialistico e appropriato per le persone con disabilità una volta divenute adulte, in continuità con il precedente referente della neuropsichiatria, sia per monitorare l’evoluzione o l’involuzione di una particolare situazione clinica e funzionale, sia per una continuità di presa in carico sanitaria ed eventualmente terapeutica, a integrazione o a supporto di quella sociale e coerentemente ai principi e agli intenti più volte proclamati di una effettiva integrazione socio-sanitaria.
Infine pur rimanendo aperta, occasionalmente o al bisogno specifico, la possibilità di una interlocuzione e di un dialogo costruttivo con specifici referenti istituzionali o responsabili dei Servizi, riconoscendone la buona disponibilità, è venuta quasi del tutto meno la prassi, particolarmente avviata anni fa su questo territorio, di un confronto, periodico e insieme continuativo sulle problematiche relative alle persone con disabilità, tra i principali protagonisti del “sistema curante”, comprese le associazioni rappresentative di loro e delle loro famiglie. Così ne soffre anche la pianificazione partecipata dei servizi distrettuali, coinvolgendo le associazioni e altre organizzazioni portatrici di bisogni e proposte, come sarebbe di per sé previsto dalla programmazione dei Piani di zona, peraltro già di per sé “in sofferenza”… Ciò si riflette anche nelle modalità di programmazione dei servizi per le singole persone, che a volte parte da ciò che il territorio può inevitabilmente offrire o privilegia una certa organizzazione standardizzata, non coinvolgendo preventivamente le persone interessate e le loro famiglie. Le UVM infatti sono spesso riservate ai soli rappresentanti istituzionali, per presentare dopo una proposta magari già ben definita ai diretti interessati, senza un vero coinvolgimento prima, o almeno seduta stante, come sarebbe previsto dal modello “budget di salute” per un progetto personalizzato, che a mio avviso andrebbe esteso e applicato coerentemente a tutte le persone in carico ai Servizi socio-sanitari. A meno che le stesse persone interessate non si pongano con un certa determinazione e chiarezza di proposta, cosa che in alcuni casi, come quello di mia figlia stessa, può portare ad una modalità di porsi senz’altro da apprezzare e da riconoscere pubblicamente.
Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi
...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...
Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo Pini, di Milano.
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