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Che cos'è la paura? La voce delle persone con disturbi mentali, di familiari e operatori

aggiornato al | Staff | ARTICOLI

di Federico Mascagni, redattore di Sogni&Bisogni

Una trentina di persone fra utenti, familiari e operatori della salute mentale si siedono in circolo dentro l’Aula delle Colonne dell’ex ospedale psichiatrico Roncati di Bologna per parlare della paura. Un sentimento che attanaglia tutte le parti in causa, ciascuna con le proprie motivazioni.

Paura Grande
L’incontro è avvenuto nel pomeriggio di giovedì 19 settembre nell’ambito degli incontri di Recovery College organizzati dal CSM Porto-Saragozza e dall’associazione Progetto Itaca Bologna.
Le modalità dell’incontro hanno facilitato l’espressione delle opinioni dei presenti e diffuso moltissimi spunti su un tema radicato nel profondo del disturbo mentale. Perché la paura è uno dei principali agenti che scatenano il disturbo. È l’emozione che innesca, facendola deflagrare, la malattia mentale. È il segnale palpabile di un disagio incontrollabile.

L’utente, il familiare, l’operatore: le tre categorie, spesso attorno allo stesso tavolo di discussione, vivono momenti di paura causati dal ruolo ricoperto, dagli stress e dalle responsabilità che si trovano di volta in volta a dovere affrontare.
Sentire raccontare qualcosa di così intimo e privato, nascosto e non detto, ha restituito al gruppo quanto di prezioso c’è nella conoscenza dell’esperienza individuale e nella possibilità di comprendere qualcosa in più.

Ecco il frutto delle testimonianze.
Per l’operatore della salute mentale la paura è quella di non essere empatico, di non sentirsi all’altezza del compito di aiuto al quale deve ottemperare. Il confronto con l’utente si scontra con l’ammissione dei propri limiti. un bagno di realtà nei confronti di una professione che nasce dall’entusiasmo di svolgere una missione terapeutica che col tempo viene ridimensionata, trovando l’equilibrio nel rimandare alla persona con disturbi la soluzione del problema attraverso il confronto, il dialogo. All’inizio capita di dare dei consigli non richiesti. Successivamente si impara che è la persona malata che deve darsi degli obiettivi, non l’operatore. Il compito è quello di lavorare di fianco all’utente e costruire attorno a lui un percorso che risponda alle sue esigenze a 360 gradi.

Nel familiare non sapere cosa fare quando si manifesta la malattia scatena la paura. La confusione delle diagnosi, lo smarrimento sul come comportarsi, la paura del ripetersi della crisi portano a una tensione costante e logorante. Da qui nasce l’esigenza del confronto con altre persone che conoscano e condividano il mondo della salute mentale, per sfogare la paura parlandone, per sentirsi meno a disagio, per eliminare lo stigma che è dentro a ciascuno di noi. Perché la paura taciuta cresce e si cronicizza.

Per l’utente l’idea di accettare una condizione che non si tollera, quella di essere malato, disabile, non autonomo, provoca paura. Ma accettarsi è anche un inequivocabile segno di consapevolezza di sé e della propria malattia. C’è la paura del contenimento chimico dei farmaci, della mortificazione della propria vitalità. Nei momenti di maggiore criticità della patologia ci si nasconde affinché la prescrizione farmacologica non diventi più pesante. Il non detto, il tacere e nascondere la propria malattia protegge dalla paura di non essere capiti. La percezione dello stigma diventa un gioco di specchi, nel quale la paura degli altri si riflette nel malato, facendo crescere in lui un senso di inadeguatezza e di anormalità. Forse è proprio lo stigma ad alimentare la paura di andare nel sé più profondo e scovare qualcosa di sconvolgente. E questa è una paura condivisa da tutti.

Un tema che accomuna il malato ai propri familiari è quello di immaginare un futuro che non sia autonomo. È l’eterno tema del “dopo di noi”, cioè la condizione di vita della persona malata quando sopravvive ai propri genitori. Una paura manifestata di frequente durante l’incontro all’Aula delle Colonne. Il dopo di noi è motivo di grande preoccupazione ma anche un segnale del grande amore genitoriale; a questo tema così attuale la politica e la comunità in generale devono dare una risposta per evitare il moltiplicarsi dei casi di solitudine e di indigenza.

Ma nell’incontro del Recovery College si è cercato anche di offrire qualche soluzione, individuando ciò di cui non bisogna avere paura. Bisogna coltivare quotidianamente la fiducia nel raggiungimento di una condizione di salute equilibrata, obiettivo che si può ottenere in un corretto percorso terapeutico. Non si deve avere sempre paura del dopo di noi, perché in alcuni utenti possono manifestarsi delle risorse di vita autonoma inimmaginate. Non bisogna avere paura di essere familiari e operatori inadeguati; non è perciò necessario compensare la percezione di manchevolezza con un eccesso di cura, perché può tarpare le ali di utenti capaci di imparare a volare. E infine bisogna praticare la serenità di vivere con ciò che si possiede, nel bene e nel male. Ma soprattutto senza paura.




 

Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi

La Terra Santa

...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...

Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo  Pini, di Milano.

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