di Chiara Ghelfi, redattrice di Sogni&Bisogni
Il 17 aprile è stato presentato presso la Biblioteca dell’Istituto Gian Franco Minguzzi a Bologna, il volume “Prima della schizofrenia. La vulnerabilità schizofrenica in età evolutiva: esperienze, fenotipi, traiettorie” di Michele Poletti, psicologo psicoterapeuta, specializzato in neuropsicologia dello sviluppo, dirigente psicologo presso Unità di Neuropsichiatria dell’Infanzia e Adolescenza dell’Azienda USL-IRCCS di Reggio Emilia.
“Le ragioni che mi hanno spinto alla scelta di questo volume sono in primo luogo affettive, per rivederci e discutere di argomenti difficili. È un libro corposo e complicato ma tratta un tema che riguarda un numero di pazienti per i quali sappiamo che la ricaduta è importante, per cui c’è un impegno altrettanto importante da parte degli operatori dei servizi per capire come far sì che questo non accada – ha detto Marco Menchetti aprendo il dibattito - Il tema è intrigante, difficile da cogliere completamente, e questa presentazione ci permette di avere un’occasione per riunire f-igure professionali diverse e spero possa farci vedere una strada concreta per avvicinarsi a una comprensione dell’argomento”. Il volume di Poletti è stato infatti proposto da Menchetti, che è professore di Psichiatria all'Università di Bologna, alla Commissione scientifica paritaria del Minguzzi che si occupa di scegliere i volumi da presentare.
“Il volume di Poletti ha un taglio accademico, ha cercato di unire epistemologie diverse per arrivare a una visione sensata di tutti i concetti – ha detto lo psichiatra Domenico Berardi - La teoria ci dice che la schizofrenia deriva da un’alterazione del sé. L’autore spiega che il sé si forma nei primi 15 anni di vita, quell’età particolare di passaggio esistenziale che, in generale, deve vedere grande attenzione da parte di tutti gli adulti di riferimento nei differenti contesti di vita. Poletti dice che c’è sicuramente una base biologica che va a intaccare i meccanismi che permettono all’individuo di capire che siamo diversi dagli altri e che quello che facciamo è diverso da quello che ci fanno fare gli altri. Questo aspetto biologico si va a collegare con i problemi ambientali”. Berardi ha aggiunto anche che, “se l’intersoggettività e l’ambiente non hanno funzionato, il rischio di ammalarsi aumenta, ma la patologia rimane silente fino all’adolescenza. Perché? Cosa succede nell'adolescenza? Quando il bambino è piccolo il rapporto con l’altro è sotto l’ombrello della famiglia e della scuola. Quando si diventa adolescenti i rapporti con gli altri non hanno più regole, si entra nella capacità di costruire il proprio sé insieme agli altri. E quando non riesci a sintonizzarti con il mondo ti costruisci delle teorie bislacche, bislacche perché non hanno confronto con gli altri. Per cui bisognerebbe capire come quella persona può rientrare nella realtà”.
La psicologa Patrizia Selleri ha portato l'attenzione sulle famiglie e sulla risposta da dare a quei genitori che si chiedono cosa devono fare: “In base alla mia esperienza di psicologa credo che la necessità sia quella di dare indicazioni che non siano suggerimenti. Un’altra riflessione che mi viene da fare è: come può essere declinata la diagnosi in atti della vita quotidiana?”
Nel suo intervento Michele Poletti ha spiegato che con il suo libro ha cercato di colmare un vuoto della letteratura scientifica, il vuoto che c'è tra il fatto che sappiamo sempre meglio come funziona una persona schizofrenica ma sappiamo ancora molto poco di come quella persona diventa schizofrenica. “Il vuoto che questo libro cerca di colmare è tra quello che sappiamo succedere poco prima della schizofrenia, cioè quelli che vengono chiamati stati mentali a rischio e quelli che sono i primi fattori precoci di rischio già presenti alla nascita, come il rischio genetico e altri fattori di rischio ambientali, e quello che succede nel lungo periodo che intercorre tra i fattori di rischio iniziali e il rischio in età adolescenziale – ha detto l'autore - Mettendo insieme vari livelli di analisi in un’ottica prospettica il libro cerca di ricostruire quali sono le tappe che progressivamente vanno a determinare nell’adolescenza o nella giovane età adulta, il rischio schizofrenico”.
Il libro di Poletti si focalizza sia sugli aspetti fenotipici sia sulle esperienze soggettive cioè quelle provate in prima persona da bambini e adolescenti. “Questo permette di tentare un profilo clinico per un riconoscimento sempre più precoce di stati che si associano alla vulnerabilità schizofrenica nell’adolescenza e nella giovane età adulta”. È dunque uno strumento sia conoscitivo che pratico per tentare di riconoscere il prima possibile i fenotipi di rischio. “La mia esperienza in questo campo nasce sia dalla formazione teorica sia dalla sua applicazione clinica – ha continuato Poletti - Ho cercato di collegare punti di ambiti disciplinari diversi. Questo volume descrive le progressive tappe precliniche di avvicinamento all’esordio schizofrenico attraverso l’infanzia e l’adolescenza”. Nella prima decade di vita si realizza la vulnerabilità cioè la difficoltà dell’incontro con l’altro. Per attivare un intervento precoce ci potrebbero essere due finestre: una genitorialità efficace, se avvenisse nei primi anni di vita, e la scuola, in particolare all'inizio delle medie, perché nella scuola confluiscono varie dinamiche, è lì che la persona se la gioca da sola, che diventa importante la percezione che hanno gli altri, che è necessario avere capacità metacognitive e ultrariflessive, che vi sono maggiori richieste di socializzazione. È in questa fase che la persona realizza di non sintonizzarsi con i pari.
“La schizofrenia è un disturbo che compare in poco tempo, ma nella maggior parte dei casi è il risultato di un lungo un percorso che dura vari anni, iniziando nell’adolescenza e arrivando al suo culmine nella giovane età adulta, solitamente prima dei 25 anni – dice Poletti - Proprio per la sua lunga preparazione, se ne possono intercettare i segnali prima che si arrivi alla schizofrenia vera e propria, cercando di intervenire per evitare o rallentare il più possibile il decorso della malattia e aiutare i giovani a mantenere un buon funzionamento”. Infatti, proprio in questa fase di vita si giocano molte delle tappe (il diploma, la patente, il lavoro, le relazioni amicali e affettive coi coetanei, i primi viaggi da soli) su cui si basa il futuro del giovane adulto.
Cosa fare? Innanzitutto, non bisogna avere troppe aspettative, risponde Poletti, “all’interno di un rapporto terapeutico la cosa più importante è l’elemento di conoscenza reciproca, l’intersoggettività fallace, permette al terapeuta di diventare il tramite per fare esperienza di quei processi automatici che la persona non riuscirebbe a fare”. Gli interventi più potenti sono quelli attivabili nei primi anni di vita. Diventa fondamentale l’elemento informativo, se la famiglia è consapevole di come funziona il figlio può calibrare le richieste e le aspettative. Sicuramente ci sarebbe bisogno di organizzare i servizi per intercettare questi giovani.
Al termine del contributo di Poletti, un familiare ha raccontato come ci si sente ad avere un figlio schizofrenico: l’iniziale negazione della malattia, che poi lascia spazio alla paura, l’isolamento dalle persone che prima erano tue amiche, perché “quando si ammala un figlio, si ammala tutta la famiglia”, e poi il senso di disorientamento, il non essere preparati e la mancanza di supporto da parte dei servizi. “Sicuramente interventi di psico-educazione rivolti ai genitori farebbero sentire i familiari meno disorientati e capaci di riconoscere i primi segni di disagio, di intercettare gli esordi e attivare degli interventi precoci”, ha affermato il familiare. E Selleri ha aggiunto che anche il personale scolastico dovrebbe essere formato, “per essere più sensibile e attento ai primi segnali di disagio”.
A una persona del pubblico, un utente dei servizi di salute mentale, che gli ha chiesto se avesse paura della follia, Poletti ha risposto, “affrontare i ragazzi nella fase precoce è tutt’altro che follia, perché è comprensibile e di conseguenza non è portatrice di paura”.
La possibilità di riunire persone di diverse realtà, psicologi, psichiatri, sociologi, utenti, familiari ha permesso di affrontare l’argomento degli esordi da diversi punti di vista e ha lasciato diversi spunti su cui riflettere. Il principale è come poter riorganizzare i servizi per intercettare il prima possibile il disagio negli adolescenti e nei giovani adulti. La sofferenza non va banalizzata.
Marco Cavallo - simbolo della chiusura dei manicomi
...quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno...
Versi tratti da "La Terra Santa"
di Alda Merini
Una raccolta di poesie che l'autrice scrisse quando era rinchiusa nel manicomio Paolo Pini, di Milano.
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